In tal senso si esprime la sezione VI del Consiglio di Stato nella sentenza n. 1481 del 30 marzo 2017 in fattispecie nella quale si trattava di difformità consistenti nell'altezza esterna del fabbricato e interna del piano sottotetto, dovuta - ad avviso della ricorrente - di una copertura del tetto a doppia falda diversa da quella in progetto per la quale era stata presentata istanza per ottenere la sanatoria dell'abuso ai sensi dell'art. 34 T.U. 6 giugno 2001 n.380 e, subordinatamente alla sanatoria, il recupero abitativo del piano sottotetto, ai sensi della specifica l.r. 15 novembre 2007 n. 33 della Puglia, ricevendo un diniego.
In primo grado il TAR aveva respinto il ricorso proposto contro il diniego ritenendo che l'intervento si dovesse considerare realizzato in difformità non parziale, ma totale dal titolo abilitativo, che pertanto la sanatoria, meglio detto la sanzione non demolitoria, di cui all'art. 34 comma 2 T.U. 380/2001 non fosse applicabile.
I giudici d'appello hanno invece ritenuto che:
- la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria va valutata nella fase esecutiva del procedimento di repressione dell'abuso, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione: è per tal motivo che la norma viene a costituire, in sostanza, un'ipotesi ulteriore di sanatoria, denominata di solito "fiscalizzazione dell'abuso";
- l'amministrazione, tenuta a decidere sull'istanza della ricorrente appellante, doveva valutare anzitutto se l'abuso costituisse effettivamente una "parziale difformità", e in caso positivo se effettivamente non potesse essere demolito senza pregiudizio per la parte conforme;
- la norma del comma 2 ter non contiene una definizione normativa della parziale difformità, ma prevede una franchigia. In altre parole, intende stabilire non che ogni violazione eccedente il 2% considerato costituisce difformità totale, ma al contrario che le violazioni contenute entro tale limite sono irrilevanti;
- in tal senso, è anzitutto un argomento letterale: il testo della norma, contenuta nell'articolo dedicato appunto alle conseguenze della "parziale difformità", stabilisce quando la stessa "non si ha", e quindi un caso in cui l'abuso esula;
- nello stesso senso, è anche l'argomento storico: la normacè stata aggiunta in un momento successivo, con l'art. 5 del decreto legge 70/2011, cd. "Decreto sviluppo", il cui dichiarato scopo è "liberalizzare le costruzioni private", scopo rispetto al quale è congruo un regime, appunto, di franchigia, volto ad alleggerire gli oneri che gravano sul privato i costi della sanzione applicata a qualsiasi a difformità, anche fra le più lievi;
- a identico risultato conduce l'argomento logico sistematico: se effettivamente il comma 2 ter contenesse la nozione normativa di parziale difformità, ne seguirebbe che sarebbe abuso, e comporterebbe in via principale l'ordine di rimessione in pristino, ogni difformità rispetto alle misure di progetto, anche la più lieve, con risultati pratici assurdi, di moltiplicazione e complicazione del contenzioso.
La decisione conferma le conclusioni a cui eravamo giunti in questo commento al novellato art. 34: "Parziali difformità ex art. 34 TUE: la soglia del 2% secondo il DL Sviluppo", ossia che il legislatore nazionale, cui spetta dettare i principi fondamentali e generali dell'attività edilizia (art. 1 DPR 380/2001), ha ritenuto di non assoggettare a sanzione alcuna le variazioni al titolo comprese nella misura del 2% per altezza, distacchi, cubatura o superficie.
La sentenza n. 1481, 30 marzo 2017, del Consiglio di Stato è disponibile sul sito della Giustizia Amministrativa a questo indirizzo.