Con sentenza 10 marzo 2016, n. 9949, la terza sezione penale della Corte di Cassazione statuisce che la demolizione del manufatto abusivo,
anche quando disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, co. 9, Testo Unico dell'Edilizia, ha
natura di sanzione amministrativa con finalità ripristinatoria del bene
giuridico leso (il territorio) e non punitiva/repressiva. L'ordine di demolizione non può quindi ritenersi una sanzione penale nel senso individuato dalla
giurisprudenza della Corte EDU e non è quindi soggetta ad alcun termine prescrizionale.
Il
Giudice penale condanna un soggetto per degli interventi edilizi abusivi e,
contestualmente, ordina la demolizione di quanto illegittimamente realizzato.
Il condannato presenta istanza al Tribunale di Ischia, in funzione di giudice dell'esecuzione, chiedendo di revocare o annullare l'ingiunzione a demolire, in ragione (a) della pendenza di una domanda di condono e (b) dell'intervenuta prescrizione della pena ai sensi dell'art. 173 c.p.
Il condannato presenta istanza al Tribunale di Ischia, in funzione di giudice dell'esecuzione, chiedendo di revocare o annullare l'ingiunzione a demolire, in ragione (a) della pendenza di una domanda di condono e (b) dell'intervenuta prescrizione della pena ai sensi dell'art. 173 c.p.
Avverso
l'ordinanza di rigetto del Tribunale ischitano, il condannato propone ricorso
per cassazione, deducendo quattro motivi di gravame:
- violazione di legge sostanziale e processuale, in quanto l'ordinanza avrebbe disatteso senza motivare la richiesta di estinzione dei reati in ragione della presentazione di istanza di condono edilizio, e la conseguente revoca dell'ordine di demolizione;
- violazione dell'art. 38 della L. 47/1985, per omessa sospensione del procedimento esecutivo;
- illogicità della motivazione, in quanto ciò che rileva per la codonabilità dell'opera è la realizzazione del rustico, non l'ultimazione della stessa;
- violazione di legge per mancata applicazione della prescrizione della pena, ai sensi dell'art. 173 c.p.
La
Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso per difetto di
specificità, in quanto deduce, senza alcun confronto argomentativo con
l'ordinanza impugnata, i medesimi profili già motivatamente rigettati dal
Tribunale. Dichiara
altresì l'infondatezza del gravame, rigettando i quattro motivi addotti a suo
sostegno.
Di
questi, i primi tre vengono respinti in quanto il manufatto oggetto di istanza
di condono, ad uso agricolo, è stato nelle more trasformato in civile
abitazione, e la vicenda penale riguarda quest'ultima opera.
L'istanza di condono riguarda quindi un immobile diverso da quello oggetto di ordine di demolizione, con la conseguenza che quest'ultimo non è nemmeno astrattamente condonabile. Sicché non può farsi appello alla sospensione o all'estinzione del procedimento ai sensi degli artt. 38 e 44 della L. 47/1985, tanto più che il procedimento penale è già concluso con sentenza di condanna.
L'istanza di condono riguarda quindi un immobile diverso da quello oggetto di ordine di demolizione, con la conseguenza che quest'ultimo non è nemmeno astrattamente condonabile. Sicché non può farsi appello alla sospensione o all'estinzione del procedimento ai sensi degli artt. 38 e 44 della L. 47/1985, tanto più che il procedimento penale è già concluso con sentenza di condanna.
E'
sul quarto motivo di ricorso che la Corte spende le considerazioni più
importanti.
La
questione, ossia l'applicabilità all'ordine di demolizione del termine di prescrizione
quinquennale previsto dall'art. 173 c.p. per le pene dell'arresto e
dell'ammenda, ne sottende un'altra, che è il vero punto decisivo: ossia se la
demolizione del manufatto abusivo sia o meno una sanzione "sostanzialmente
penale".
Per
la risposta affermativa è il ricorrente, che a sostegno della tesi richiama
un'isolata pronuncia del Tribunale di Asti (ordinanza 3 novembre 2014) secondo
cui l'ordine di demolizione non sarebbe una sanzione amministrativa, bensì una
vera e propria pena, nella declinazione "sostanzialistica" fornita
dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. In tal senso, anche all'ordine di
demolizione sarebbe applicabile l'art. 173 c.p.
La
Corte ripercorre il quadro normativo relativo alla demolizione delle opere
abusive, rilevando anzitutto - quale indice che esclude da principio la natura
penale della misura - l'assenza di pertinenzialità rispetto ad un fatto-reato.
Gli artt. 27 e 31 del Tued disciplinano, rispettivamente, la demolizione c.d. d'ufficio e l'ingiunzione alla demolizione; in entrambi i casi, il presupposto è la presenza sul territorio di un immobile abusivo, a prescindere da qualsivoglia accertamento sulla responsabilità dell'abuso. Il fine della demolizione è ripristinare l'originario assetto del territorio, non punire il responsabile di interventi edilizi illegittimi.
Peraltro, l'art. 31 co. 9 Tued dispone che la demolizione venga ordinata dal giudice penale con sentenza di condanna "se ancora non sia stata altrimenti eseguita". Secondo la lettura della Corte, anche quando ordinata dal giudice penale, la demolizione preserva la propria natura amministrativa e la dimensione accessoria rispetto al procedimento penale.
Il fatto che, per ragioni di celerità e di economia, si demanda al Giudice che ha pronunciato sulla responsabilità penale anche il compito di ordinare la demolizione, se non è già stata eseguita d'ufficio o a seguito di ingiunzione, non vale a mutare la natura (da amministrativa a penale) della sanzione.
Ciò
chiarito, la Cassazione si concentra sull'applicazione analogica dell'art. 173
c.p., di cui deduce l'illegittimità. In primo luogo perché si ritiene che il
ricorso al procedimento analogico sia precluso rispetto alle cause di non
punibilità. In secondo luogo, perché non si ravvisa una lacuna normativa da
colmare, non potendo ritenersi indefettibile la previsione di una causa
estintiva della sanzione amministrativa della demolizione in conseguenza del
decorso del tempo. In terzo luogo, perché manca l'elemento di identità tra la
situazione disciplinata e quella non disciplinata (c.d. eadem ratio), in quanto
l'art. 173 c.p. è riferita alle sole pene principali e non anche alle pene
accessorie (e tantomeno alle sanzioni amministrative).
D'altronde, argomenta la Corte, non si può nemmeno ricorrere ad un'applicazione analogica ai sensi dell'art. 12 preleggi (c.d. analogia iuris), che richiede un caso dubbio da risolvere mediante individuazione di un principio generale: e qui mancherebbe tanto il caso dubbio, quanto il principio generale, non esistendo un principio per cui il decorso del tempo comporta l'estinzione della sanzione amministrativa.
Il
monito finale è nei confronti di letture "à la carte" della
giurisprudenza-fonte della Corte di Strasburgo, "dal quale scegliere
l'ingrediente ermeneutico ritenuto più adatto ad un'operazione di
pre-comprensione interpretativa".
Il
diritto CEDU non è direttamente applicabile dal giudice nazionale, il quale ha
la sola alternativa di esperire una interpretazione "convenzionalmente
conforme" della norma interna, oppure di sollevare questione di
legittimità costituzionale.
L'art. 173 c.p. non appare suscettibile di applicazione analogica, né di interpretazione "convenzionalmente conforme", a tanto ostandovi l'univoco tenore letterale, che limita la prescrizione alle sole pene principali, con esclusione tanto delle pene accessorie quanto (come nel caso di specie) delle sanzioni amministrative.
Con la conseguenza che il giudice avrebbe potuto, al più, proporre questione di costituzionalità avverso l'art. 173 c.p.
Il testo integrale della sentenza n. 9919/2016 della Corte di Cassazione Penale è disponibile su /www.ambientediritto.it a questo indirizzo.